Maria Grazia Genovese |
IL NIDO NEL ROSAIO
I Ho trovato un nido nel rosaio
abbandonato e intatto.
Dello scirocco le lunghe sferzate aveva resistito.
Volati son già via i passerini.
II Ora sento sull’albero di fronte di frullio d’ali, un tramestio:
una coppia di passeri agguerrita contro una gazza ladra difende la covata.
Fugge il malfattore.
Resiste il nido, seppur di paglia fragile.
III Ho potato il rosaio. Non ho toccato il nido.
Fragile, paglia, ricordo.
Fortemente abbrancicato.
(Maria Grazia Genovese)
RIFLESSIONI critiche di Antonio Cattino
Leggere le poesie di Maria Grazia Genovese per me significa entrare in un mondo immateriale ed onirico fatto di simboli, figurazioni fantastiche, arcani richiami al mistero: nascita, vita, amore-morte, dissolvenze nell’ambito di verità nascoste e impenetrabili.
Infatti il ciclo della vita, in questa silloge, ma più complessivamente nella poesia di Maria Grazia, è il percorso obbligato dell’uomo, un percorso che fin dall’inizio è lotta, fin dal parto, per sopravvivere e poi via via per conquistarsi un posto nella vita. Ciò diventa palpabile nella poesia: “Il nido nel rosaio”, che dà inizio e titolo all’opera, in cui la fragilità del nido, seppur battuto dal forte e distruttivo scirocco, resiste, consentendo un riparo alla crescita dei passerini che prendono il volo per esplorare il mondo, mentre fa da contraltare la lotta agguerrita dei passeri, nell’albero di fronte, tesa a difendere la covata nel nido minacciato dalla gazza ladra, così da farla desistere e fuggire.
Tutta la raccolta è pervasa dall’afflato con la Natura, sia nella celebrazione delle albe, incipit di vita, che delle sere, quando, dopo il tramonto, col calare delle penombre e dell’oscurità, prendono vita i sogni con i loro portati di ricordi, rimembranze, di persone o luoghi che hanno marcato la vita vissuta della poetessa, o in cui si rinverdiscono le speculazioni sulla vita e la morte, che rimane l’unica certezza della vita, ineludibile e sempre incombente sugli esseri viventi, siano essi entità animate che alberi o piante.
Della vita rimane il ricordo di chi sopravvive, negli stessi odori che riaffiorano
delle persone care (Ciclamino d’estate).
Mentre l’aspirazione alla solitudine al momento della morte è palese e pregnante nella lirica “ Danse macabre”, per schermare e celare l’estremo decadimento del corpo e della mente e la lunga conseguente agonia: “Dovremmo esiliarci/ percorrere il sentiero/ bordato di siepi e sparire, svanire”.
In tutta la silloge emerge la marcata scelta naturalistica di Maria Grazia Genovese, il suo sentirsi parte della Natura, intesa come unico contenitore e palcoscenico di Vita. In essa vi sono i travagli dell’animo umano, le disillusioni della vita: l’uomo e la donna sono soli nel mondo, ognuno però è teso alla ricerca di solidarietà, vicinanza ed amore. Gli animali e le piante non sono per lei elementi scollegati dalla vita umana, ma si completano a vicenda, tutti capaci d’amore, come nell’episodio narrato nella poesia “Risveglio, in autunno” quando la gatta Diavolina abbandona per un frangente la vita ferina ed accede, ricambiandole, alle affettuose attenzioni della poetessa.
Maria Grazia ci concede anche finissime allusività fantasmatiche, come nella lirica “Il fantasma” con l’apparizione aurorale del fantasma di un amore, nel vedo non vedo delle trasparenze incerte che precedono l’alba, ma al primo raggio del sole nascente, il fantasma sparisce, si dissolve, e lei rimarrà pervasa dalla felicità di averlo potuto riconoscere, pur nella perdurante solitudine che permane nell’animo.
Alla fine, nella lirica di chiusura “ Epilogo”, la vecchia casa diventa una polverosa tomba, in cui tutto è pervaso di abbandono, colma di polverosi oggetti ed in cui i legni dei portali sono fragili simulacri di sé stessi, corrosi e tarlati. La poetessa, che la abitò, la lascia per sempre recandone con sé le chiavi, rendendola inaccessibile e sigillando così, simbolicamente, il mistero la propria anima.
Questa silloge rappresenta un’ulteriore conferma della poetica di Maria Grazia Genovese, intima e fortemente pervasa da simbolismi, in cui il ritmo e la musicalità sono elementi fortemente caratterizzanti. Una poetica fine e colta, nelle cui figurazioni trovano posto sovente il Mito e la Favola.
Un sentire forte nella sua poesia, non solo in questa raccolta, è il sentimento della solitudine, determinato forse dalla convinzione che la conoscenza profonda, pure fra simili, è impossibile: “Ognuno è solo sul cuor della terra…”
Argomenti profondi motivano la lettura di questo nuovo libro di poesie della collana Florilegio che accomuna nella scrittura gli amici poeti del Cenacolo Culturale Hortus Animae.
La lirica che chiude la silloge:
EPILOGO
Chi cerchi? Non vedi
che chiusa è la porta?
Son tutti morti.
Non vedi gli scalini
impolverati, le assi
pericolantidei portali?
Marcio il legno si frantuma
al tocco delle dita.
Ed è persa la chiave.
“Mi perdonerete - aveva detto,
ultime parole - se non mi unisco a voi
in questa notte di stelle.
Troppo lontani ardono i fuochi
dei falò e non mi sento d’unirmi
alle danze.
Me ne starò da sola
a contemplare, fra gli astri,
sconosciute vie.”
E girò le spalle.
E portò con sé la chiave.
(Maria Grazia Genovese)
Da sinistra: l'Autrice- la prof. Paola Colace- l'avv. Tosi Siragusa - Io- il prof. Giuseppe Rando |
Il manifesto della manifestazione in corso della Biblioteca Regionale Universitaria "Giacomo Longo" di Messina. |
Pubblicato il 26 Dicembre 2019 da Antonio Cattino©
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