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Una bella recensione del prof. Giuseppe Rando sull'ulltima pubblicazione di Maria Costa: "Abbiru Maistru"-(Albero Maestro)

Maria Costa con Giuseppe Rando: erano vicini di casa al villaggio Paradiso.

Ricevo dal prof. Giuseppe Rando e pubblico con piacere:


ABIRU MAISTRU, l'ultima raccolta di Maria Costa

Con questo titolo è uscito, per i tipi del Pungitopo (Gioiosa Marea, 2013), l'ultimo libro di Maria Costa: una silloge di undici poesie e dieci racconti redatti ex novo dalla poetessa messinese recentemente scomparsa o tirati fuori, all'epoca, dal suo inesauribile serbatoio di componimenti dialettali più o meno recenti (che attendono di essere pubblicati).

Nella sezione poetica del libro, si ammira la vena sociale della Costa che rimpiange, da un lato, sulle corde dell’elegia, l’Albero Maestro, «onuratu da vecchia Missina» prima dell’«era du cimentu» (Abiru Maistru) o esorta il Mar Mediterraneo, contaminato dal progresso (presunto), a «non dispirari», nonostante che questo nostro mondo «vessu l’abissu cchiù s’allatia» (Miditirraniu Miditirraniu), ma assume, dall’altro, i toni forti della satira pungente per contestare, nell’ottica straniata dei pesci e di Colapesce, il progetto del ponte sullo Stretto (U sfrattu: no o ponti). È palpabile in ogni componimento il miracolo di una lingua dai mille timbri, divenuta, nelle mani di Maria Costa, uno strumento duttilissimo, per dar fiato, sommessamente, al dolore («Sacciu chi cianci lagrimi amari») e alla più disinibita, aggressiva, mascolina parlata: «Chi vai dicennu, pezzu di minchiuni?».

Altrettanto felici, nitidi e inconfondibili, sono i ritratti poetici di personaggi messinesi (L’antinatu da lantenna, Lillu Missina) e di personaggi siciliani, più o meno noti, fatti sfilare in coppie di settenari a rima baciata, sopra una incalzante, funambolica passerella (Sicilia). La lirica dedicata a Lillo Messina, anarchica, sciolta da vincoli metrici prestabiliti e tuttavia scandita da un crescente ritmo musicale, è una sinfonia di oggetti marinareschi e di colori forti, in gara con quelli altrettanto realistici e accesi dei quadri del pittore messinese: «E du frastagghiati costi, / ciccasti fotti culuri / pi tili ‘mbrumati di sali. / ‘E chiaranzani ‘ndurati, l’oru zicchinu, pi strisciari / affreschi di cubaltu, / giuvin sicanu».

Ritornano anche nella silloge, con uguale pathos solidale, pacifista, antibellico, la storia minore (Rudia 26 marzu 1941) e la storia maiuscola (Don Giuvanni d’Austria): la poetessa di Case Basse, rimemorando il racconto del padre (in Don Giuvanni d’Austria) o ricorrendo alla sua memoria personale (in Rudia 26 marzu 1941), canta, nei modi dolenti della sua epica popolare, la morte di un giovane pescatore messinese, Joè, i cui «viddi anni» s’erano fermati «’nte bagliuri disonesti di la guerra» e la carneficina di turchi e cristiani nella battaglia di Lepanto: «Di sangu nni scurria a tutti i banni / dopu cinc’ùri mmulati p diu Gianu, ma a vintun’ura a riali i don Giuvanni / lenta ‘nchianava u stemma cristianu!».

Ma palpita, in tre intense liriche (Sigesta, Quattru figghi du mari, Deci tabbuti d’acqua), il materno, solidale cordoglio per la morte di giovani pescatori messinesi, travolti dall’incuria degli uomini o dalla potenza omicida del mare. E si ripete il miracolo di una lingua negletta, che, modellata da Maria Costa, sa ancora toccare le fibre più profonde del cuore: «E s’ascuraru quattru ranni luci / c’aviuni ‘nte vini mari e mari / ma u chiantu amaru cu cci u pò stutari / e matri ffritti appisi ‘nta la cruci?».


I racconti della seconda sezione – da Feri e feruni a ‘Gnaziu Buttitta – sono degni di essere accolti in una ideale antologia della migliore narrativa siciliana. E ad uno ad uno vanno assaporati: per la forza espressiva, per la varietà del lessico, per la ricchezza dei contenuti, per i vertici poetici che il narratore popolare, eterodiegetico (ineffabile Maria Costa!) attinge con incredibile naturalezza. I personaggi restano, tutti, impressi nella mente e nell’immaginario del lettore: Sabbaturi, «un beddu figghiu, giuvinazzu, brunnu, fotti e simpaticuni», finito in Inghilterra per lavorare e ingannato da don Vicenzu, «un sdepruvatu pustinu», che gli ruba i soldi inviati, con grandi sacrifici, alla vecchia madre (Feri e firuni); Mariuzza, «un buttuni ‘i rosa», rapita dai Turchi e infine restituita, con qualche capello bianco, al marito, Micu, che l’attese per quindici anni (Mariuzza e li Tucchi); l’amore giovanile, finito tragicamente, in tempo di guerra, tra «u suddatu Ermannu», tedesco, capitato a Messina, «‘ntà ciumara di pecurara», e Carulina, una bellezza nostrana «cu du trizzi ‘cudduriati, fimmati chi firruzzi e ‘na bucca scumicusa chiuttostu cannusa e tritrigna» (‘U surdatu Ermannu); Petru “Ricchiazzi”, il marinaio del Ringo che assiste a una spassosissima gara di lestofanti (Petru “Ricchiazzi”); il padre di Maria, uomo «mintali», che «vintuttinu» assistette al terremoto di Messina, rievocandolo cinquant’anni dopo (1908: Terra cà trimato, trimirà); la furbizia di quattro messinesi, che, per sfamarsi, durante la seconda guerra mondiale, senza darla a vedere, rubano la carne destinata al cane del capitano Tumbulus (Tranzitu Campu n° 3. Azzo Orraitti); Matteu, l’ultimo di «na ‘mbracata ‘i figghi» di Donna Sara Cafeu, che, nel 1909, alla visita del militare, si dichiara, giustamente, cercatore d’oro: da un anno, cerca e trova sulla spiaggia del Ringo i gioielli che il maremoto ha portato via dalle case e che lo scirocco restituisce «a lavari supra a ribba» (Un ciccaturi d’oru); Mastro Giorgio, un calabrese proprietario di un bozzetto, la «Scappa dura», con cui fa contrabbando di carne bovina, nel primo Novecento, sulle acque dello Stretto (Un carricu ‘i boi).

Ma su tutto, dappertutto s’impone la lingua: la lingua siciliana (messinese) in tutta la sua sonora, cromatica, ancestrale bellezza.

Attestano, infine, la contiguità, quasi parentale, di Maria Costa ai grandi della cultura siciliana il diario poetico Un ghionnu d’abrili i l’annu 2010, scritto a caldo, con animo filiale, dopo la visita, a Vizzini, della casa natale di Giovanni Verga, e una sorta di “lettera aperta” (‘Gnaziu Buttitta), commossa, partecipe, fraterna, indirizzata al grande poeta palermitano. Sono testi che scavalcano i confini tradizionali della prosa e della poesia: poesie, invero, in forma di prose.

by  Giuseppe Rando
<www.giusepperando.it>.

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