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LA LINGUA SICILIANA, una nuova nota del Prof Enrico Caltagirone- Glottologo

Un gradito supporto per l'attività di insegnanti e studenti, in Sicilia ed oltre.






Essendo stato sollecitato da molti amici e conoscenti, in particolare da Antonio Cattino di Messina, voglio parlare della Lingua siciliana. Parlo di “Lingua siciliana”, non di dialetto o di vernacolo. Il “dialetto” connota un idioma minore, rispetto alla lingua, il “vernacolo” una forma ancora più dimessa. Pertanto invito formalmente coloro che, volendosi riferire al “Siciliano”, usano le parole “dialetto” e “vernacolo” a non farlo più. Per spiegare questa scelta cercherò di argomentarne i motivi, nell’intento di sfatare luoghi comuni e affermazioni errate. Qualche anno fa, nel maggio del 2013, fui invitato al “Congresso linguistico italiano”, a rappresentare la Sicilia. L’incontro, intitolato “Le parlate d’Italia”, avvenne nella prestigiosa sede milanese della Casa del Manzoni, in Via Morone. In quella circostanza ho spiegato chiaramente i motivi della scelta di “Lingua siciliana” e non di dialetto o vernacolo. Ho ricordato a tutti che la “Lingua Siciliana” è stata utilizzata come lingua ufficiale e diplomatica dal XIII al XV secolo!
Anche l’Unesco ha avallato la formulazione di “Lingua madre”, desiderata e auspicata da molti ricercatori siciliani. L’Unesco ha stabilito che “Siciliano” e “Napoletano” devono essere considerati “lingue madri” e non dialetti dell’italiano. Ma, paradossalmente, mentre l’Unesco considera questi idiomi dell’Italia meridionale “lingue”, lo stato italiano no. Ogni commento è superfluo!
Ma bisogna che tutti abbiano chiaro il significato di “lingua”, per evitare che sorgano malintesi.  Una “lingua” ha bisogno di regole e di un comune sentire. In Lombardia potreste incontrare un Bergamasco che parla il suo dialetto, un Mantovano che parla il suo dialetto e uno di Sondrio che parla il suo dialetto. Se parlassero fra di loro, ognuno nel proprio dialetto, farebbero fatica a capirsi, perché non parlano la stessa “lingua”. Ma se questi tre personaggi parlassero in italiano, si capirebbero benissimo, perché l’italiano è una lingua che ha delle regole precise e un comune sentire per tutti gli italiani. Bisogna fare lo stesso discorso per la “Lingua siciliana”. Se vogliamo che il “Siciliano” sia veramente una lingua deve avere delle regole e un comune sentire per tutti i Siciliani. Non possiamo scrivere in messinese, o agrigentino, o in catanese o palermitano, perché sarebbe scrivere nel dialetto di Messina o di Agrigento o di Catania, ecc., e non in “Lingua siciliana”. La faccenda è ancora più grave quando si ricorre al fonografismo, scrivendo “cose” illeggibili e improponibili, scimmiottando i vari Tamburello e Di Giovanni. La Sicilia è stata nei secoli abitata da genti di lingua e cultura molto diverse, ed è inevitabile che in alcune zone sia rimasta qualche traccia di tali popoli e delle loro lingue, anche nel modo di pronunciare le consonanti palatali, le liquide, le sonore e le sorde. Es.: morta= motta, moita; bambino= picciriddu, picciliddru; ecc. Serve dunque una convergenza e una conformità che porti ad una lingua letterale comprensibile a tutti nella scrittura. Del resto, come qualcuno dei più attenti ha già osservato, dal dopoguerra si è andato formando e consolidando un siciliano letterario scritto che affonda le radici nel latino, con ortografia e sintassi omogenee. Avremmo così una “Lingua Siciliana” ufficiale uguale per tutti, come la Lingua Italiana è uguale per tutti, e avremmo per questa lingua vari dialetti locali, che in Sicilia sono almeno 200, come avviene in tutte le lingue del mondo.


                                                       



Aree interessate dalla lingua siciliana - immagine UNESCO.



Alcuni ricercatori sostengono che la Lingua Italiana derivi dal “siciliano”. Ma ci sono fieri oppositori i quali sostengono che questo sia solo un mito. Come tutti sanno le prime testimonianze letterarie nel territorio italiano risalgono al XIII secolo, al tempo di Federico II Hohenstaufen, il quale presso la sua corte, a Palermo, diede vita alla “Scuola poetica siciliana”. Ne facevano parte eruditi giunti da tutta l’Italia meridionale, notai e giudici, e ne facevano parte lo stesso imperatore e suo figlio Enzo. La produzione letteraria della Scuola Siciliana e le innovazioni ad essa connesse ebbero una grande rilevanza in tutto l’occidente, e in special modo in Italia. Tra i letterati di maggiore spicco si ricorda Jacopo da Lentini, a cui viene attribuita l’invenzione del sonetto.
Da un punto di vista puramente linguistico i poeti siciliani usarono una forma alta e aulica del “volgare siciliano”, non propriamente quello parlato dal popolo, operando una specie di “canone di neutralità” dai vari dialetti locali e costituendo una “Lingua Siciliana Ufficiale”, arricchita da latinismi e francesismi portati dai trovatori.
Alla morte di Federico II la monarchia sveva scomparve rapidamente, ma nonostante la sua scomparsa, non scomparve il lascito, la produzione letteraria della “Scuola Siciliana”.
Schiere di copisti toscani si erano adoperati a riprodurre le opere della Scuola, eliminando o modificando i passi più ostici e rendendo la poesia siciliana “toscanizzata”.
Coloro che non concordano con la derivazione dell’italiano dal siciliano oppongono soprattutto il “vocalismo tonico”.
L’italiano fa uso di sette vocali, vocalismo eptavocalico:
a, è, é, i, ò, Ó.
Il siciliano è pantavocalico:
a, è, i, ò, u.
Perché dunque sono giunte a noi poesie della Scuola Siciliana con vocalismo toscano? Perché i copisti toscani, nella trascrizione, oltre all’eliminazione di alcuni arcaismi, cambiarono di loro iniziativa il sistema vocalico siciliano in quello italiano. Tutti gli autori successivi, compreso Dante, attinsero alle copie toscane e maturarono l’idea che la lirica siciliana abbia influenzato in modo determinante la lingua italiana. Questo equivoco è usato dai negazionisti come arma. Ma è evidente che nonostante il vocalismo diverso e l’equivoco indotto dai copisti, la Lingua Siciliana ha avuto una grande importanza nella definizione della Lingua Italiana.

1. Origini e influssi

Questa parte della ricerca è necessaria giacché alcuni “illuminati” si ostinano a confondere il SICULO col SICILIANO. La lingua dei Siculi (parlata nel territorio italiano dal 1800 circa a.C. fino al 200 circa a.C.) era una lingua di origine orientale, una lingua proto-indoeuropea portata a occidente dalle varie ondate migratorie (vedi Marija Gimbutas, Editta Castaldi, ecc.).

Nel primo tegolo di Adrano si può leggere:
DVI HITI MRUKESH AIS UIE (Per i due morti qui deposti invoca Dio). Nel secondo tegolo di Adrano si legge:
RE SESAN IRES (Concedi ai resti di risorgere). Tutte le parole di tutte le iscrizioni sicule sono sanscrite, senza alcun dubbio!

Diverso è il discorso per quanto riguarda il SICILIANO. Al sostrato antichissimo costituito dalla lingua dei Siculi, si sono nei secoli innestati vocaboli e modi di dire di altre lingue. Pertanto il siculo non ha l’esclusività della lingua siciliana ma ne costituisce la base. I diversi popoli, che negli ultimi 3000 anni si sono susseguiti, più o meno pacificamente, alla dominazione della nostra terra, hanno lasciato un’impronta indelebile nella lingua e nella cultura siciliana. Un’analisi sull’origine della lingua siciliana ne rivela la sua unicità e la sua natura multiculturale.

Qui di seguito solo alcuni esempi di parole che ci hanno lasciato in eredità i popoli giunti nelle varie epoche in Sicilia.


2. L’influsso dei Siculi (1270 a.C. - 200 circa a.C.)

I Siculi parlavano una lingua che possiamo definire proto-indoeuropea. Nelle iscrizioni sicule si possono trovare parole tipicamente proto-indoeuropee, radici attestate in sanscrito, alcune delle quali sopravvivono nella parlata siciliana. Alcuni esempi:

lupara, da lup, morire;
mattanza, da maha, grande e hatá (han), morte, uccisione;
prescia, da presha, premura;
ammatula, da a-matula, invano;
ammuccari, da mucka, bocca;
putra, da putra, figlia (anche di animali);
camiare, da kam, piacere;
nica, da nica, piccolo;
priarisi, da pri, gratificarsi;
alluzzari, da look, vedere;
vara, da vara, spazio protetto;
sbaddu, da svadha, piacere;
ambu, da ambu, acqua;
trinakia, trinacie, da trinakya, giardino.


3. L’influsso greco (735-254 a. C.)

I Greci lasciarono un’impronta indelebile nella nostra parlata. Molte sono, infatti, le espressioni di origine greca che vengono ancora usate, nella nostra parlata, come ad esempio:
carusu, ragazzo, greco kouros;
cirasa, ciliegia, greco, kérasos;
casèntaru, lombrico, greco, ges enteron’;
crastu, montone, greco krastos;
cuddura, forma di pane, greco, kollira;
‘ntamatu, sbalordito, greco, thauma’;
babbiari, scherzare, greco, babazo;
allippatu, unto d’olio, sporco, greco, lipos;
pitrusinu, prezzemolo, greco petroselinon;
fasolu, fagiolo, greco faselos;
tumazzu, formaggio, greco tumassu.

Inoltre molti nomi di città come Trapani, greco, drepano, Palermo, greco pan ormos.


4. L’influsso latino (254 a.C - 410 d.C.)

Nell’anno 254 a.C. i romani occuparono la Sicilia e vi rimasero per più di 600 anni, fino al 410 dopo Cristo. Il latino non ebbe vita facile in Sicilia, perché al latino si preferiva il greco, ritenuta lingua più dotta. Comunque, con l’andar del tempo si incominciò a parlare anche il latino. Oltre alle espressioni di origine latina che si riscontrano nella lingua italiana, il siciliano conserva alcune espressioni latine, che non si riscontrano nell’italiano, come:

antura, poco fa, latino ante horam;
oggiallannu, l’anno scorso, latino hodie est annus;
bifara, una specie di fico, latino bifer;
muscaloru, ventaglio per le mosche, latino muscarium;
grasciu, grasso, sporco, latino crassus.

L’influsso dei Barbari, (410 - 535 d.C.)  non ebbe conseguenze dal punto di vista della lingua. Durante la loro occupazione si continuò a parlare e a scrivere in latino e greco.
L’influsso bizantino, (535 – 827 d.C.) servì a far riemergere la lingua greca, che rimase la lingua predominante per i successivi tre secoli.

5. L’influsso arabo (827 - 1064 d.C)

Nell’827 d.C., la Sicilia fu presa di mira, invasa e conquistata dagli Arabi, i quali rimasero sull’isola per circa 3 secoli. Furono loro ad introdurre in Sicilia sistemi di irrigazione, piantagioni di limoni, aranci, pistacchi, meloni, papiro, gelsomino, ecc. Molte espressioni nel campo agricolo ed alimentare, nell’amministrazione e nella toponomastica derivano dall’arabo:

babaluci, lumaca, arabo babaluci;
balata, pietra, arabo balat;
cafisu, misura d’olio, arabo qafiz;
cùscusu , pasta per la minestra, arabo kouskousu;
dammusu, abitazione, arabo damús;
gebbia, vasca d’acqua, arabo dijeb;
giuggiulena, semi di sesamo, arabo giulgiulan;
mischinu, poveretto, arabo miskin;
sciarriarisi, litigare, arabo sciarr.
zagara, fiore d’arancio, arabo zahra.

Testimoniano la lunga presenza degli Arabi anche molti nomi di città, come Caltagirone, Caltabellota, Calatabiano, Calatafimi Caltanissetta, con l’elemento arabo “qalah” o “qalet” (castello), e Misilmeri (castello dell’emiro), arabo: manzil al-amir.


6. L’influsso normanno (1064 – 1195)

La dominazione araba ebbe termine nell’anno 1064. Ruggero I invase la Sicilia ed ebbe ragione degli Arabi, che non andavano più d’accordo tra di loro. Con i Normanni giunsero in Sicilia i trovatori, che tanta importanza rivestirono dal punto di vista linguistico, ed entrarono nella parlata siciliana molte espressioni franco-provenzali, come:

accattari, francese acheter;
buatta, francese boite;
ladiu, francese laid;
racina, francese raisin;
muntuari, nominare, francese mentaure;
burgisi, possidente, borghese, francese borgés;
picciottu, giovanotto, francese puchot;
muntata, salita, francese montade.


7. L’influsso degli Svevi (1195 - 1250)

Alla morte dell’ultimo re normanno, la corona di Sicilia passò a Costanza, moglie del re Enrico di Hohenstauffen. Fino all’avvento di Federico II, alcuni baroni tedeschi comandarono la Sicilia per quasi vent’anni. Quantunque breve, questo periodo lasciò qualche impronta di tedesco nel siciliano:

arrancari, muoversi con affanno, tedesco rank , gotico wranks;
vastedda, pane rotondo, tedesco wastel;
sparagnari, risparmiare, tedesco sparen.


8. L’influsso degli Angioini (1266 - 1282)

Alla morte di Federico II (1250 dopo Cristo) seguì un periodo caotico. Per 11 anni la corona passò al figlio del re d’Inghilterra, Edmondo di Lancaster, che fu poi destituito dal nuovo papa francese che affidò il regno a Carlo di Anjou, fratello del re di Francia. Sebbene di breve durata (1266 fino al 1282), il periodo angioino fece consolidare la parlata francese, che diede al siciliano espressioni come:

ammucciari, nascondere, francese mucer;
custureri, sarto, francese costurier;
scippu, furto, francese chiper;
runfuliari, russare, francese ronfler;
travagghiari, lavorare, francese travailler;
vucceri, macellaio, francese boucher (vucciria).


9. L’influsso spagnolo e catalano

La dominazione francese cessò a causa di una rivolta popolare (i Vespri Siciliani del 1282). Carlo d’Anjou fu cacciato, ma la Sicilia rimase comunque in balia di un altro “straniero”, Pietro D’Aragona. Gli spagnoli governarono la Sicilia per quasi 500 anni.

abbuccari, cadere, capovolgere, spagnolo abocar;
affruntarisi, vergognarsi, spagnolo affrontarse;
arricugghirisi, rientrare, spagnolo recollirse;
cucchiara, cucchiaio, spagnolo cuchara;
curtigghiu, cortile, spagnolo cortijo;
lastima, lamento, affanno, spagnolo, làstima;
pignata, pentola, spagnolo piñada;
scupetta, fucile da caccia, spagnolo escopeta;
zita, fidanzata, spagnolo, cita:
sgarrari, sbagliare, catalano esgarrar;
stricari, strofinare, spagnolo estregar;
nzirtari, indovinare, catalano encertar.


10. Conclusione

La Lingua siciliana, come risulta chiaramente da questa dissertazione, poggia le sue basi su un sostrato proto-indoeuropeo introdotto nell’isola dai Siculi. Su quelle antiche basi si è innestata nel tempo la lingua greca, dando vita a comunità di parlanti “sicelioti”. Bisogna ricordare che il greco è una lingua indoeuropea, e la lingua parlata dalle avanguardie greche non era così dissimile dal siculo.
La dominazione romana non cambiò questo stato di cose per molti secoli, giacché si continuò a parlare una lingua greca frammista a siculo. Tutte le dominazioni successive hanno contribuito a creare un idioma unico al mondo.

La Lingua siciliana ha dunque delle nobili origini e da ciò bisogna partire se vogliamo difendere e affermare la nostra identità. Sarebbe auspicabile che le autorità scolastiche e politiche siciliane, si impegnassero a rivalutare, curare, difendere e divulgare questo patrimonio multiculturale, unico al mondo, e parlato in tutto il mondo. A tale proposito, pare che qualcosa si stia muovendo. Dopo pochi mesi dall’annuncio del 15 maggio 2018, durante i festeggiamenti dello Statuto Speciale della Regione, l’insegnamento della Lingua Madre Siciliana nelle scuole pare stia diventando una realtà operativa. Secondo le dichiarazioni dell’assessore Lagalla, “La Lingua Siciliana andrà collocata dentro l’insegnamento di una materia letteraria. Saranno previsti diversi livelli di insegnamento, dalle scuole primarie alle superiori”. Non ci rimane che attendere e sperare, con i politici non si sa mai!

Il “siciliano” oggi, oltre che dai 5 milioni di Siciliani, e da almeno 2-3 milioni di siciliani sparsi nel resto d’Italia, oltre che da Calabresi e Salentini, è parlato da un numero imprecisato (si calcola oltre 5 milioni) di persone emigrate di recente, o discendenti di emigrati nei secoli scorsi, in USA, dove si è formato il “Siculish”, in Canada, in Australia, in Argentina (la comunità più numerosa), in Uruguay, in Venezuela, in Belgio, in Germania e nella Francia meridionale.
Il processo della rinascita siciliana, a cui stanno lavorando schiere di ricercatori, di linguisti, di poeti, che meritano ogni elogio e un invito a continuare, deve passare anche attraverso la rivalutazione della nostra storia, della nostra cultura e della nostra lingua.

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