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IL MARE, LA RICERCA SCIENTIFICA E L’ISTINTO PEDAGOGICO, del prof. Giuseppe Rando






Pubblico con piacere il seguente saggio del prof. Giuseppe Rando.

Mi è capitato tra le mani, stamattina, per caso, un librino (Critica, filologia e scienze umane. Una giornata di studi con Giuseppe Rando, Aracne, Roma 2016, € 10,00) che, due anni, fa alcuni miei colleghi mi hanno dedicato.
Un librino di cui mi sono occupato meno di quanto avrei dovuto: mi succede sempre con i miei libri: dopo averli pubblicati, non me ne curo più, come se non fossero più solo miei.
Ora, sfidando la logica e ogni criterio editoriale, pubblico su FB la copertina di quel librino e il mio piccolo saggio che lo suggella: prosit per la conoscenza dell’Università, per la formazione dei giovani studiosi di letteratura e per gli amici che ancora non lo avessero letto. A tutti spudoratamente suggerisco: «Accattativillo e frequentate il mio blog (www.giusepperando.it); forse, non rimarrete delusi».

Considerazioni obbligate e finali


Mi preme innanzitutto ringraziare dal profondo del cuore i cari colleghi – e Paola Radici Colace in primis – che hanno egregiamente presentato le linee maestre della mia attività scientifica: voglio davvero sperare che il loro abituale – e accreditato – rigore critico non sia stato troppo offuscato dal velo dell’amicizia. Certo, ho lavorato molto, in questo lungo ma rapidissimo quarantennio, e qualche risultato positivo ho pure conseguito con i miei studi, ma mi piace rilevare, senza iattanza e semmai con un pizzico di orgoglio marinaresco, che ho fatto solo il mio dovere d’intellettuale democratico e di professore universitario.
Mi si lasci, però, dire che vengo dalle barche del Faro, dal mondo dei valori concreti della gente di mare, dalla vita semplice e sudata dei pescatori, che forse il senso del dovere hanno acquisito – per secolare frequentazione – nel patrimonio genetico, e a me, insieme con altri difetti, l’hanno geneticamente trasmesso. Sia come sia, non mi è mai pesato il lavoro – cioè lo studio, la ricerca, la scrittura, la pubblicazione di articoli, saggi, libri – come se la voglia di fare fosse, appunto, cosa naturale, genetica. Il mio nonno paterno, di cui porto ovviamente il nome, uomo «bbonu – dicevano – com’o pani e ‘ntelligenti com’a nu Papa», che ha saputo costruire, partendo dal mare e dalla pesca, una fortuna economica, per sé e per i figli (quattro fimmine e quattro masculi), negli anni Trenta del secolo scorso, aveva elaborato una sua pedagogia che si traduceva nell’esortazione «Facìti e sapìti fari», la cui più fedele traduzione in lingua potrebbe essere «Fate e curate di saper fare»: i pescatori non sono anime belle, non inseguono farfalle, non pettinano i cagnolini e non si guardano l’ombelico né altra parte del corpo, allo specchio, la mattina. L’altro mio nonno era un pescatore di poche parole, saggio e robusto «com’un pilèri», padre di cinque splendide figlie fimmine e di due baldi figli masculi, lavoratore instancabile e ardimentoso quant’altri mai, che stramazzò, cinquantenne, per mala sorte, sulla soglia di casa, colpito alla testa dalla scheggia di una bomba americana nella puttana estate della puttana guerra del ’43. Io, postbellico, non li ho mai conosciuti, questi nonni, ma ne ho sempre frequentato il duro epos, attraverso i ricordi dei figli e dei pescatori della mia infanzia felice sulla spiaggia del Faro.
Non ho nominato la pratica dell’insegnamento tra le attività lavorative, perché, di fatto, non ho mai considerato un lavoro – men che mai un lavoro pesante – la (pure intensissima) attività didattica che ho svolto per un quarantennio, senza concedermi mai un giorno di riposo, di licenza, di congedo che sia: sconosco peraltro, del tutto, le delizie del cosiddetto anno sabatico. È che trasmettere le mie conoscenze agli studenti, coinvolgerli nella ricerca, portarli almeno alle soglie del mondo meraviglioso della letteratura, evidenziando parimenti la dimensione formativa dei testi letterari e l’incanto insostituibile del bello poetico, è stato sempre per me un piacere.
Devo pure dire, per onestà e per completezza dell’informazione, che queste marinaresche attitudini hanno forse propiziato il mio ingresso nel mondo accademico, negli anni Settanta del secolo scorso, quando uomini di grande levatura morale e intellettuale, come Franco Scisca (vicepreside dell’Istituto Magistrale messinese, in cui approdai, faroteddu, l’anno dopo la laurea, avendo conseguito di primo acchito la difficile abilitazione all’insegnamento nei Licei), come Calogero Colicchi (professore incaricato di Lingua e Letteratura Italiana alla Facoltà di Magistero di Messina, a cui mi presentò il caro Franco Scisca), come Antonio Mazzarino (latinista insigne e preside della stessa Facoltà), a cui mi presentò un garbato, distinto, correttissimo Calogero Colicchi, che mi aveva già nominato Assistente incaricato, credettero nelle mie potenzialità: anche le pietre sanno, ad ogni modo, che non sono passato per le vie corte della raccomandazione politica, del familismo untuoso, della servitù accademica. 
Oblitero volentieri, anche per non rubarvi troppo tempo, il mio fruttuoso apprendistato alla Facoltà di Lettere di Messina (la laurea maxima cum laude in latino con Fabio Cupaiuolo, che credette subito in me, insieme con Anthos Ardizzoni e Salvatore Costanza; il superamento del concorso per Assistente ordinario alla Cattedra di Letteratura Latina; il trasferimento di Cupaiuolo a Napoli, dove mi avrebbe voluto portare; il pianto di mia madre, che si vedeva privata, col mio trasferimento a Napoli, dell’unico sostegno economico della famiglia; il mio rifiuto della proposta ‘napoletana’ di Cupaiuolo e dei diritti di ‘ternato’ messinese, propiziato anche dai paterni consigli di Franco Scisca, con cui facevo lunghe discussioni sui romanzi appena letti e sui film appena visti, ogni mattina, prima dell’inizio delle lezioni, all’Istituto Magistrale “Ainis”: «Professore, Lei non solo conosce a menadito tutti i romanzi e le poesie della nostra letteratura, ma ha anche visto tutti i film del mondo. Mi ascolti: lasci perdere il Latino e la Facoltà di Lettere; uno come Lei, là se lo mangiano in un boccone, chissà a chi è destinato quel posto. Venga al Magistero; c’è un giovane professore di Italiano che vuole formare una scuola. Venga»). 
Ma devo pure dire che tali insolite attitudini non hanno agevolato più di tanto il mio percorso in un mondo – quello accademico messinese – dove (talora) prevalevano valori altri, rispetto a quelli, luminosi della meritocrazia e della gente di mare. 
E tuttavia, grazie a Dio (da cui talora mi sento, misericordiosamente, protetto) e a italianisti di gran vaglia (penso in ispecie a Giuseppe Petronio, a Riccardo Spongano, a Giorgio Barberi Squarotti, ad Arnaldo Di Benedetto) che hanno apprezzato i miei studi, ce l’abbiamo fatta, come direbbero i miei pescatori: lavorando sodo, da solo, a Messina, sono riuscito a trasmettere, per più di tre decenni, saperi, abilità, competenze e bellezze letterarie nonché valori a centinaia e centinaia di studenti (si insegna quello che si è) e a pubblicare, tra l’altro, saggi «innovativi» che forse resteranno. Auguro, invero, a tutti i colleghi di provare, nella fase conclusiva della carriera, la stessa soddisfazione professionale ch’io ho la fortuna di assaporare cotidie. 
Certo, non ho «attraversato la vita in carrozza», ma non mi stanco di ricordare ai giovani che, in una democrazia (sia pure «incompiuta») come la nostra, si può vincere (o non perdere) senza derogare troppo dai propri principi. È pure vero, tuttavia, che il «sistema» si è risarcito dei colpi che io, con la mia condotta improntata all’onestà marinaresca, gli ho inferto (ho sempre osteggiato – et pour cause - ogni forma di servilismo, di familismo, di clientelismo): basta pensare agli intralci imposti alla mia carriera, per sue ubbie personali e secondo logiche tipicamente privatistiche, da uno dei più potenti ‘baroni’ della prima e della seconda repubblica (rinsavito, menomale, in vecchiaia). 
Tornando ai temi del meeting filologico letterario che la collega e amica carissima Paola Radici Colace ha voluto organizzare, con la prontezza e la sagacia che le sono proprie, voglio sottolineare che la didattica e la ricerca scientifica hanno sempre costituito, per me, un binomio inscindibile: il dialogo che intesso con i testi letterari, evitando ogni forma di impressionismo e curando, col supporto della storia e della filologia, di non violarne la personalità, prosegue, con identici intendimenti, nel corso delle lezioni frontali con gli alunni, che non ho mai considerato sacchi vuoti da riempire o clienti da imbonire, ma persone da rispettare ed aiutare, casomai, a crescere.
Dico spesso agli alunni, e qui ripeto con malcelato orgoglio, che non ho mai studiato un autore della letteratura italiana per motivi che non siano quelli del piacere di leggere e di conoscere, intrigandomi soprattutto la fase genetica dei testi. Alla luce di questi convincimenti, supportati dalla conoscenza (che ho sempre perseguito e perseguo) dei più aggiornati metodi critici ed ermeneutici, riconosco, senza falsa modestia, di avere conseguito i risultati che hanno testé egregiamente illustrato gli insigni relatori. Poco o molto che sia, confermo tutto spudoratamente: ho impresso, davvero, una svolta decisiva in direzione costituzionalistica agli studi alfieriani del Novecento; ho documentato, per primo, la genesi giornalistica di Gente in Aspromonte e la sua singolare elaborazione, aprendo la strada agli studi alvariani di questo tipo; ho rivelato aspetti sconosciuti della poetica, della cultura e della poesia di Giacomo Leopardi e ho curato la prima edizione critica dell’orazione Agl’Italiani; ho proposto interpretazioni tanto inedite quanto circostanziate di opere fondamentali di Verga, di Pirandello e di altri autori siciliani; ho dato il mio contributo alla pubblicazione degli scritti giornalistici di Salvatore Quasimodo; ho partecipato al dibattito sulla poesia postmyricea di Giovanni Pascoli, richiamando l’attenzione dei critici e dei lettori sulla poetica materialistica, neoleopardiana, codificata dal grande poeta romagnolo nel discorso messinese L’èra nuova, e rileggendo alcuni componimenti postmyricei di assoluta, smagliante bellezza. Aggiungo inoltre, alla faccia dei nani, dei cialtroni e dei bellettristi, che ho dimostrato, per primo, la presenza del Sublime di Pseudo Longino nella poetica e nella poesia di Parini, a conferma del fatto che ho esercitato – ed esercito – la critica letteraria, con intenti propriamente euristici, non già decorativi, o riassuntivi, o calligrafici o men che mai plagiari: non ho mai lisciato, insomma, i testi, cerco semmai di penetrarli per carpirne qualche segreto.
E ciò – devo dire – contro certa pratica strumentale degli studi, che incentiva talora, soprattutto nel mondo universitario, la produzione di libri barbosissimi (per arzigogoli impressionistici e calligrafici) o pseudoscientifici (per filologismo cavilloso e, alla fine, depistante), scritti solo pour épater les bourgeois e fare carriera: gli stessi che finiscono con l’inibire, di fatto, la corretta fruizione della letteratura, e dei suoi altissimi valori, a certi, sfortunati studenti universitari, magari destinati a insegnare domani letteratura.
Certo, pur seguendo la lezione di molti maestri cartacei, ho avuto la fortuna – o l’ardimento – di sottrarmi al ‘tutorato’ di chicchessia, godendo sempre della più ampia libertà di ricerca, senza la quale non si ottengono, com’è noto, risultati duraturi a livello scientifico. Quanto dire che ho sempre contestato, e contesto, di fatto, con la mia vita, oltre che con il mio modo di intendere e praticare l’attività didattica e scientifica, una visione rozza e mistificatoria dell’Università come potere, privilegio, apparenza, rifiutandone decisamente tutte le lusinghe e pagandone, talora, di persona (in Sicilia!), l’inevitabile scotto.
Ma – devo dirlo – in questo lungo, accidentato ma meraviglioso percorso, mi sono trovato sempre accanto le donne: la bellezza, la simpatia, il coraggio delle donne. Ho visto brillare la luce dell’intelligenza, dell’umanità, della dignità più nelle donne che negli uomini. Le donne della mia vita ovviamente, quelle che ho amato e mi hanno amato, a partire da mia madre: mia moglie, le mie figlie, le zie, le cugine, le colleghe, le allieve, le amiche …
A due colleghe – ambedue hanno il nome di Paola – sono peraltro legati due momenti significativi della mia carriera accademica: Paola Santoro e Paola Colace. La prima, stimatissima professoressa associata di Lingua e Letteratura Spagnola presso la Facoltà di Magistero (poi Scienze della Formazione) dell’Università di Messina, fu protagonista di un gesto che vale la pena di ricordare perché testimonia, in maniera lampante, il buono che c’era – e c’è tuttavia – dalle nostre parti. Era scomparso prematuramente Mazzarino. Il Consiglio di Dipartimento di Studi Linguistico Letterari e della Documentazione storica e Geografica era stato convocato per decidere della chiamata di un concorso nel settore L-FIL-LET/10 (Letteratura Italiana). Contro le aspettative mie e dei colleghi di Dipartimento, si erano profilati subito, nel Consiglio, impensabili tentativi di depistaggio, chiaramenete provenienti dalla facoltà “gemella” e mirati as oddisfare le esigenze di un “barone” con un posto di ricercatore per la figlia. Ma Paola Santoro, per prima (non lo dimenticherò mai), si alza e chiede che quel concorso («valutazione comparativa», si chiamava) sia bandito per la prima fascia della docenza. Si alza, per dichiarazione di voto, Giuseppe Caridi: «Sono d’accordo con Paola». Tutti sono d’accordo, per alzata di mano, con la proposta di Paola Santoro. Viene chiamato, nella Facoltà di Magistero dell’Università di Messina, un posto di prima fascia per L-FIL-LETT/10 (Letteratura Italiana). E forse, per la prima volta nella storia dell’Università, un professore si candidava all’ordinariato – e diventava quindi professore ordinario - per volontà unanime dei colleghi di Dipartimento, insorti all’unisono, senza ricevere alcuna direttiva dall’alto: un mezzo miracolo, in quel contesto (magari da rievocare, con tutti i riferimenti richiesti, in un romanzo da farsi).
Non smetterò mai, tuttavia, di sostenere, con tutte le mie forze, l’Università del merito, della trasparenza, della ricerca scientifica e di denunciare per converso – non uti singulus, ma come italianista patentato (unico messinese, vincitore di un concorso per ordinario di Letteratura Italiana a Messina, dalla notte dei tempi), come intellettuale consapevole, come cittadino democratico, non reticente – i nefasti effetti del cosiddetto sistema baronale, perdurante in Italia fino a ieri, di cui ci andiamo faticosamente liberando. 
Ma ritorniamo a luoghi più ameni e alle due amiche – le due Paola – che il destino ha collocato in punti cruciali della mia vita professionale. Ho già detto di Paola Santoro.
Paola Colace, di cui tutti conosciamo gli alti meriti scientifici che l’hanno proiettata su scala nazionale ed europea tra le più accreditate studiose di Filologia Classica, ha, per giunta, ai miei occhi, il merito grandissimo di avere voluto e organizzato, in una Università distratta, più attenta, forse, alle fanfare che al silenzio degli studi seri, questo incontro filologico-letterario sulla mia figura di studioso e di professore. Sicché, per quanto mi riguarda, si potrebbe parlare di un ordinariato aperto e sigillato dal sorriso e dall’acume di due intelligenti, sagaci, bellissime donne: non è da tutti.
Scusandomi per qualche lungaggine di troppo, trattenendo la commozione montante, ma con la fierezza indomita di un fiocinatore dello Stretto, ringrazio, infine, con gioia immensa, gli amici, i parenti, i colleghi e gli studenti che hanno accolto il mio invito a partecipare a questo “Meeting filologico-letterario”: onorando me, hanno onorato l’amicizia, di cui mi professo alfiere, e la cultura libera, democratica, innovativa, migliorativa di cui mi sento espressione.

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