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Rosa Celeste (Rosinella): Dallo Stretto di Messina al Friuli, con nostalgia-


Il Cenacolo Culturale Hortus Animae si pregia di aver contribuito alla divulgazione dell'opera poetica e letteraria di Rosinella Celeste presentata, con il contributo dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Messina, al Salone delle Bandiere giorno 24 Maggio 2018.
Alla poetessa giungano i più sinceri complimenti, ma anche l'abbraccio, di tutti i poeti afferenti al nostro Cenacolo.
Un grazie particolare ai professori Giuseppe Rando (già ordinario di Letteratura Italiana, Università di Messina) e Orazio Nastasi per l'impegno profuso nella critica dell'opera.
Ad Antonio Cattino va il merito di aver segnalato il valore di questa poetessa che ci onoriamo di definire "nostra".

Maria Grazia Genovese,presidente dell'associazione,
Antonio Cattino, vice-presidente e
Gaetano Anania, tesoriere.


Profilo biografico di Rosinella Celeste Lucas.

Tracciare in poche righe un profilo biografico della poetessa e giornalista Rosa Celeste (Rosinella), è stato per me impresa ardua.
La sua maturazione umana ed intellettuale è stata caratterizzata dalla  permanenza in due contesti territoriali distanti e profondamente diversi.

La sua Messina, città dove è nata, ed il Friuli Venezia Giulia dove vive ora, curando oltre la famiglia, il marito ed il figlio, nonché i suoi amici animali, gatti, cani, galline e oche.
Una data pesa profondamente nella sua vita, come in tutta la famiglia Celeste, ed è quella del 28 febbraio 1943, quando, il sommergibile che comandava suo padre, il comandante Giovanni Celeste, s’inabissò al largo di Augusta, per essere stato fortemente danneggiato dall’aviazione inglese, che gli dava la caccia. Eroe romantico ed altruista scelse di inabissarsi col suo sommergibile dopo aver fatto salvare i ragazzi dell’equipaggio, portandosi a 2,5 miglia dalla costa di Augusta (SR), affrontando da solo la reazione dell’aviazione inglese. Aderendo così al codice d’onore che lega i comandanti di marina di tutto il mondo.
Voglio usare le sue parole, scritte in una lettera che mi ha indirizzato:
«sono nata a Messina in via S.Giovanni Bosco 16- Con mia madre siamo tornate in Friuli Venezia Giulia, mia madre (Elodia Minussi) era friulana, di Monfalcone, dopo la tragica notizia della morte di mio padre avvenuta il 28 febbraio del 1943 al largo di Augusta. In seguito, mamma ha ospitato in Friuli, fratelli e sorelle di papà, profughi da Messina bombardata di continuo. Finita la guerra, andavamo spesso a trovare gli zii ... che poi, partita mia madre mi trattenevano…forse perché in me vedevano rivivere mio padre...ero il loro amuleto, mi circondavano sempre di grande affetto, e mi facevano frequentare una scuola privata. Poi da adolescente avveniva la stessa cosa, mi iscrissero all’Istituto Magistrale privato del S.Cuore di Messina»

Ed in un’altra lettera, continua: «… ed è per questo che mi sento una messinese in esilio».

Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile del 1945, la situazione bellica in Friuli precipitò, con l’occupazione tedesca prima e con quella jugoslava dopo: Rosinella Celeste è testimone diretta o indiretta degli avvenimenti, come il drammatico arresto ed internamento della madre nel carcere del Coroneo di Trieste da parte dei tedeschi, che l’accusavano di avere aiutato i partigiani delle montagne friulane, Rosinella aveva 7 anni, e racconta questo episodio, con grande forza descrittiva nel suo racconto “Il xe de tropo” < E’ troppo>.
Superata questa fase drammatica della guerra, Rosinella completò gli studi tra Messina ed il Friuli, insegnando per 20 anni a Gorizia, affiancando l’attività di giornalista in varie testate Friulane, collaborando alla pagina culturale di RAI 3 – Friuli, al rotocalco <Fogolar> con il Messaggero Veneto, ed il Gazzettino di Venezia,
dove viene notata dal direttore del tempo, il grande giornalista, anche lui messinese,
Giuseppe Longo, anche lui scrittore, che diresse quel giornale da 1960 al 1967; collabora alla rivista “Vino” di Nino Benini.

Il 21 maggio 1954 all’età di 17 anni circa, Il Ministero della Difesa (Marina Militare) sceglie Rosa Celeste come Madrina d’Onore per il varo a Monfalcone ed il battesimo della Motocannoniera veloce – MC 490 a cui fu imposto il nome di Folgore, nell’intento di ricompensare con un atto di alto valore simbolico il sacrificio verso la Nazione Italiana del Comandante Giovanni Celeste, suo padre.
La Città di Messina, già nel 1948 gli aveva intitolato il vecchio ed allora unico stadio di calcio di via Oreto a Gazzi, per ricordare ai messinesi la grande ed esaltante attività di fondatore, presidente, allenatore e giocatore dell’Unione Sportiva Peloro che negli anni ’30 riuscì a rappresentare Messina fino in Serie B.

Una nota dolente, ripresa dal giornalista sportivo Massimo Mastronardo, e quindi di pubblico dominio, fu che il 17 agosto del 2004 data dell’inaugurazione del nuovo stadio di San Filippo, poi intitolato a Gianfranco Scoglio, Rosinella Celeste aveva richiesto alla famiglia Franza, allora proprietaria dell’A.C.R. Messina, un invito per la cerimonia d’inaugurazione, nei posti d’onore, riservati alle autorità ed agli ospiti illustri, la famiglia Franza non aderì alla richiesta, né rispose alla lettera in cui Rosinella lamentava loro, ed in particolare al Presidente dell’ACR Messina, Vincenzo Franza, questa dimenticanza, ed indifferenza nei confronti della storia del Calcio a Messina, in cui Giovanni Celeste aveva ricoperto un ruolo eminente ed attivo.

Ma ritorniamo alla Poesia: Rosa Celeste ha avuto rapporti ed apprezzamenti, tra l’altro, da scrittori come Fulvio Tomizza,
Paolo Maurensig, ed il compianto Aldo Camerino. Un Racconto della Celeste è stato inserito da Fulvio Tomizza nel libro “ Lettere dalla mia terra”, assieme a P.P.Pasolini. Il critico Licio Damiani le scrisse lusinghiere prefazioni e recensioni.

Rosinella Celeste, ha pubblicato finora 6 libri, di cui 5 di poesie, ed una piccola antologia di racconti e liriche che va sotto il titolo di <Bora e Scirocco> che è il suo vero capolavoro, in cui a detta di tanti critici e recensori, lei fa il bilancio della sua vita, tra l’incanto dello Stretto di Messina, quindi la Sicilia, con la sua magica insularità, e il razionalismo mitteleuropeo del Nord Est friulano; inserendo nella prosa, elegante, scarna ed immediata, il suo spirito e la sua essenza poetica, facendo cavalcare la Poesia nelle strade della Prosa.

L’opera prima è stata la silloge <Poesie> Edizioni D’Anna
( Messina-Firenze) oggi praticamente introvabile. La giuria del Premio Nazionale Cittadella (PD), assegnò a quest’opera il primo premio.

Seguirono altre sillogi:
<La Forma Incauta> Edizioni Rebellato, che vinse il Moretti d’Oro- Presidente ed estensore della motivazione della Giuria, il Poeta Eugenio Montale;

< Il Tempo Dilatato> ( Edizioni PAN-Milano) premiato a Montecchio Maggiore con l’AlteCeccato, presidente di giuria Ugo Fasolo;

i recenti: <Bora e Scirocco> edizioni della Laguna di Gorizia e <Giù La Maschera> sono corredati dalle prefazioni di Licio Damiani.

La ristampa di <Vino Amore e Poesia> ( Edizioni della Laguna- Gorizia) con prefazione di Piero Fortuna, postfazione di Paolo Maurensig, ed illustrato dal pittore Enrico Poz, è stato tradotto anche in Friulano ed in Sloveno e ha vinto il Premio l’Acino d’Oro per il vino della Pace-Cormons (GO).

Sue poesie appaiono in prestigiose Antologie del Nord Est, Nella Repubblica Slovena spesso sono apparse traduzioni in Sloveno di alcune sue liriche. Mentre altre sono inserite nei tomi della Società Filologica Friulana, l’uno intitolato FRIULI e l’altro SLOVENIA.



(*) A Messina hanno scritto su Rosa Celeste prima di me, il giornalista sportivo Massimo Mastronardo sul suo sito “Gran Mircì”, e la Gazzetta del Sud ( quotidiano della Sicilia e della Calabria), il 19 Giugno 2008, (A.Cattino).

Antonio Cattino 24 maggio 2018.


Il ringraziamento della Città di Messina







Giuseppe RANDO 

ROSINELLA CELESTE, POETESSA SICULO-FRIULANA

C’è una sorta di dimorfismo nella vita e nell’opera di Rosinella Celeste Lucas. Il dimorfismo genetico, innanzi tutto, di chi nasce da un padre meridionale (siciliano, messinese, nella fattispecie: il famoso Giovanni Celeste, mitico campione della Unione Sportiva Peloro, divenuto tenente di vascello e morto in guerra al comando del sommergibile FR. 111, affondato, al largo di Augusta, da tre cacciabombardieri alleati, il 28 febbraio 1943) e da madre friulana (Elodia Miniussi di Monfalcone).Il dimorfismo culturale, quindi, tipico di chi è vissuto tra due “mondi” assai distanti e certamente diversi: quello siciliano immediatamente postbellico e quello friulano, per l’appunto.Un chiaro dimorfismo poetico, di conseguenza, sia per quanto riguarda il livello tematico dell’opera complessiva (quasi paradigmaticamente articolato in un filone autobiografico messinese e in un filone autobiografico goriziano), sia per quanto riguarda il livello strutturale in cui si alternano o s’intrecciano il taglio lirico e il taglio narrativo dei componimenti, sia per quanto riguarda il piano stilistico, giocato sui due versanti del realismo (degli oggetti, dei corpi, dei colori, dei sapori) e del misurato simbolismo (di stampo postermetico), all’insegna di una tendenza introspettiva che non si fa fatica a riconoscere come mitteleuropea (la linea Slataper, Saba, Stuparich indicata, giustamente, da Fulvio Tomizza non è casuale).
Ma non è affatto oppositiva, polemica, aggressiva la poesia di Rosinella Celeste, nella quale, invece, ogni tipo di conflitto (possibile o reale) si compone in una cifra di superiore armonia. Non per nulla, la vita è assaporata dalla poetessa siculo-friulana tantonei doni che elargisce (i giochi dell’infanzia, i sogni dell’adolescenza, le gioie dell’amore, gli incanti della natura), quanto nei dolori, nelle delusioni, e/o nei traumi che purtroppo la contrassegnano (la morte e la ricerca infinita del padre, il volo di morte degli aerei in guerra, le umiliazioni patite dai nazifascisti, la morte cruenta del primo amore, Melo, a Villa Lina, le tristitiae della maturità). E ciò – si badi – con i toni misurati di una saggia, serena moralità e talora con un pizzico di ironia o con un vago, appena accennato, rimpianto delle gioie perdute. Ma sempre nei moduli di una limpida, varia, fresca, sicura musicalità.
Ultimo - in ordine di tempo - e più maturo frutto poetico di Rosinella Celeste Lucas è la raccolta Giù la maschera, pubblicata a Udine, da Gaspari Editore, nel 2015.
Vi si evidenzia, chiaramente, la dimensione visiva, ma anche introspettiva della sua poesia in cui l’autobiografismo di fondo si stempera in forme simboliche e allusive di grande bellezza.
Si rilegga Campanili:

Amo i campanili, muti di notte
La scialba luce dell’orologio
Come occhio sbarrato
Da stanchezza vecchia
Che s’innesta con la mia.
Amo i campanili come gli alberi
Quelli modesti, campagnoli
Quelli sfrontati, di merletti e trafori
Quelli dimenticati in vaste radure
Come un uomo da riamare
Intravisto a distanza.
Per un colpo di batocchio
In chiaroscuro di memoria
Ritorna un ragazzo
-maglietta a righe e gambe puledrine -
Sulla torre campanaria
Uccellino garrulo e sfrontato
Mi volteggia sul cuore (p. 17).

Come ognun vede, la poetessa utilizza elettivamente il piano medio, discorsivo, referenziale della lingua (campanili, orologio, alberi, batocchio, maglietta, gambe) e sfrutta le associazioni inedite di sostantivo e aggettivo («campanili […] muti»; «gambe puledrine») nonché le risorse discorsivo-musicali dell’enjambement («stanchezza vecchia / che s’innesta») e le similitudini eleganti («quelli dimenticati in vaste radure / come un uomo da riamare»): erede in ciò della migliore tradizione poetica novecentesca (e non solo). Ma il guizzo finale della metafora con cui un ragazzo dell’infanzia messinese con «maglietta a righe e gambe puledrine» diventa, per incanto, un «uccellino garrulo e sfrontato» che «mi volteggia nel cuore», sfiora il sublime.
Sono, in gran parte, amorosi, peraltro, i componimenti di questa pregevole plaquette: l’amore, eterno e sempre nuovo, con il suo corredo di sensualità, di felicità, di abbandoni, di rimpianti, di delusioni, ma sempre vivificante.
Si rilegga almeno Assioma, Mistero, Medea 2000, Imprudenza, Sorriso, Senz’ali, Bracconiere, Onda anomala, Giù la maschera, Senza resa.
Dove non c’è l’amore ci sono le vicende dolci-amare dell’esistenza nelle poesie di Rosinella Celeste.Si veda Fratelli, Nuda, Al sicuro, Rinvio.
Appaiono, però, tanto intimamente connesse e interrelate le liriche di Giù la maschera che si possono leggere come una sorta di lungo poemetto epico- lirico articolato in sei sezioni attraverso espliciti o sottintesi rimandi: la prima sezione (pp. 13 -28) comprende liriche brevi, quasi haiku giapponesi o frammenti di lirici greci, centrati sull’amore o su aspetti peculiari della vita dell’io poetante; la seconda (pp. 29- 45) si muove tra recuperi sempre vivi del passato siciliano e sguardi intensi sul lungo tempo friulano; nella terza (pp. 46-56) si rifà urgente il tema dell’amore; nella quarta (pp. 57-63) emergono viepiù nitidi luoghi, usanze, pietanze, vini friulani; la sesta (p. 64) è costituita da una sola poesia Diamanti rossi, stupendo explicit dell’opera, che fa da pendant con Racconto, la poesia con cui si apre la raccolta stessa.
Si consideri che l’ouverture di Racconto è friulana per antonomasia: alla descrizione del paesaggio esterno («Piove che sembra autunno. /A metà giugno piove/ senza una scossa. I muri / sfilano stretti […]»), segue il riferimento alle usanze familiari, interne («Adesso / conviene preparare / le marmellate e il fondo / grommoso delle botti.») e, per subitaneo trapasso, il riferimento alla difficoltà di vivere l’amore dopo agosto, mese-emblema di fine dell’estate e della giovinezza. Laddove l’explicit di Diamanti rossi è all’insegna della sicilianità più autentica: i peperoncini (alias diamanti) rossi del Sud sono il giusto antidoto alla malinconia, alla depressione, alla noia, alla solitudine del Nord (il tramite è assicurato anche dalla parola «noia» con cui si chiude Racconto e che campeggia nel centro di Diamanti rossi («Quando la noia ti piove attorno / porta il pensiero al Sud, ai ‘Diamanti rossi’».
E non si finirebbe mai di delibare la scrittura di Rosinella Celeste, che è «scorciata, allusiva, rapida ed elegante» secondo la perfetta definizione che ne ha dato il prefatore Licio Damiani, e, nel contempo, la varietà dei suoi registri espressivi e il suo controllato lirismo e alcune sue sapide aperture alla poesia narrativa.
Il taglio lirico-narrativo è palpabile in Vagna 1916 (p. 35) e ne Il partigiano (p. 36), due liriche sociali, risolte nei modi tuttavia personalissimi della poetessa siculo-friulana. Nella prima, la rievocazione attraverso gli occhi della nonna («dal naso sottile», che «profumava di melissa»: l’immagine ritornerà tale quale nei racconti, come vedremo) dell’esperienza ella Grande Guerra e del Campo Profughi di Vagna. Nella seconda, il racconto creaturale del coprifuoco patito durante la guerra da lei abbracciata alla madre, della morte di Melo e del «mitra Gestapo» che «gelava la nuca» della mamma.
Una silloge totalmente pregna di colori, umori e sapori friulani è Vino amore e poesia, in cui le liriche sono mirabilmente associate agli splendidi disegni di Arrigo Poz e arricchite dalla Postfazione di Paolo Maurensig. Al vino si accompagna, per vie, nemmeno troppo sottili, l’amore. Si rilegga la sensualissima Vendemmia («vendemmi il mio corpo / spremi i miei fianchi / e svuoti la mia anima notturna»), Ramandolo («E leggo nell’antico vino / i graffiti di un amore»), Tocai (dove ritorna il «muletto acerbo e scanzonato» dell’adolescenza), Schippettino, Bacò, Ribolla gialla, Madera, Riesling.
L’anima sensibile, memore e partecipe di Rosinella Celeste si riverbera altrettanto distesamente nel bel libro di prose poetiche, intitolato, a ragione, Bora e Scirocco, quasi a suggellare metaforicamente le due stagioni – quella friulana (Bora) e quella siciliana (Scirocco) – della sua vita. Due stagioni certamente diverse ma - alla fine - complementari, giammai antitetiche; così come la scrittura in prosa - questa scrittura in prosa - non è affatto antitetica, come succede altrove, a quella in versi. Talché gli stessi stilemi, la stessa lingua «scorciata, allusiva, rapida ed elegante», gli stessi eventi, gli stessi personaggi sono talvolta presenti nelle poesie e nelle prose.
Una prima sezione (pp. 11-34) del libro contiene racconti intonati alle infantili esperienze dell’io narrante in terra friulana dopo la «fuga precipitosa da Messina» (la madre, la nonna «dal naso sottile» che «profumava di melissa», le fiabe, la madre di Magda che «veniva calciata con violenza lungo il Corso del Popolo» dai tedeschi perché aveva servito i “banditen dei monti”, la polenta, le ciciole, le martondelle, il salame dolce, la coppa, il prosciutto, il bollito con le ossa, il Musèr, la Brovada, il Carso, Monfalcone, Trieste, i soldati ‘Titini’); segue una serie altrettanto incantevole (pp. 35-58) di racconti relativi al breve soggiorno della scrittrice, da bambina, nella città natale (il ricordo del padre, lei «orfana-feticcio» dei parenti stretti, gli zii, le zie, le suore, le preghiere, Padre Paolo che dava pizzicotti sul sedere, la signorina Nuccia, badante del parroco, i cugini, Melo, l’amore infantile, morto malamente a Villa Lina); chiude il libro una terza sezione (pp. 59-93), friulana, in cui campeggiano luoghi (Gorizia, Pradumli, Masarolis, Materada) e personaggi (Viva, un’amica morta in circostanze misteriose; il signor Gelindo tanto geloso quanto amante dei luoghi chiusi; un gruppetto di ragazzi balordi; Mariute violentata e crocefissa da due ubriachi, Anita Pittoni; Dino Dardi; Fulvio Tomizza) che hanno attraversato, a vario titolo, la vita della scrittrice.
C’è sempre amore - ma senza alcuna indulgenza idillica o folklorica - nella descrizione del Friuli (di cui si registra con rammarico il passaggio «dai Valzer al Giallo») e nel ricordo di Messina - della Messina immediatamente postbellica –, che è rievocata nei modi sempre molto realistici, aspri, crudi di città massacrata dalle bombe, dalla fame, dalla violenza.
A lettura avvenuta, l’autore implicito del libro si rivela un intellettuale, una donna, in ispecie, consapevole del male (ma anche del bene) di vivere, ostile ai totalitarismi del secolo breve, laicamente convinta del valore della testimonianza civile e della forza indomabile dell’amore, estranea (dopo le esperienze infantili di un cattolicesimo sconfinante nella pura ritualità e/o nella superstizione) a ogni forma di misticismo religioso: una donna che sa guardare in faccia la realtà, con qualche speranza ma senza troppe illusioni.

Giuseppe Rando, critico letterario. 24 maggio 2018.



Prof. Orazio NASTASI


Una sera di alcuni anni fa, vagando tra gli scaffali di una libreria della nostra città, la mia attenzione fu attirata dal titolo di un libro “Siamo fragili, spariamo poesia”, autore Guido Ceronetti. Mi suggerì immediatamente l’idea che in quelle parole si adombrasse la condizione di precarietà della nostra esistenza e a un tempo, chissà perché, la capacità nostra di potere scoprire nella poesia il mezzo grazie al quale reagire alla precarietà e addirittura scrollarsi di dosso il senso di fragilità che ci opprime, sentendo per essa lo stupore grande della vita, la fuga dalle apparenze, per scavarci dentro e a poco a poco scoprire chi siamo, che cosa vogliamo, a che tendiamo. Anche attraverso una delle caratteristiche, spesso misconosciute, proprie della poesia, quando questa si fa memoria, ricuperando tutti gli elementi che compongono la nostra storia personale, offrendoci ora in chiaroscuro ora nella sua solarità la lettura in filigrana della trama della vita. Pure se, dobbiamo ammetterlo, la letteratura e la poesia dell’ultimo secolo, anche tra i post-ermetici, ci sembrano attraversate spesso dal canto dell’abbandono, dall’amore che non è stato vissuto, dalla nostalgia di quanto non goduto, e, in estrema sintesi, dalla sofferenza e anche dalla insensatezza che spalanca all’abisso della notte e alla poesia del rimpianto. Perché i poeti del Novecento raramente pensavano alla poesia come mediatrice di positività, anche se tuttavia qualcuno pensò ad essa come a qualcosa che potesse contribuire ad indirizzare verso la vita, scoprendo di questa senso e significato. Anche se difficile, bisogna ammetterlo, in un mondo come il nostro, in cui pare che si paghi il benessere con la noia, con l’indifferenza, spesso anche con la solitudine, con il respiro angosciato dell’esistenza.
Così, come se svoltasse proprio di respiro, nella sua opera poetica, perché anche la sua prosa è spesso poetica, Rosinella Celeste Lucas sembra assegnare alle due fasi del respiro poetico funzioni diverse e complementari: inspira la realtà in cui ha vissuto o vive, e la elabora con lo strumento artistico, e poi la espira, offrendola al lettore sotto forma nitida di poesia o di brevi intensi racconti. Così, tra canto e disincanto e trame esistenziali recuperate o di viva presenza, con il suo modo di scrivere, che potrebbe essere definito lirico e narrativo insieme, Rosa Celeste inspira l’aria del presente, si ossigena con quella del passato, ne espira la prospettiva e la direzione in forma poetica, in cui si nota anche una certa drammatica tensione del recupero della parola e, per questa, della riscoperta delle infinite possibilità che la lingua può dischiudere, interpretando e rappresentando la realtà che accade e lo spirito del tempo, strappando al silenzio la poesia. E ce la rappresenta Rosa Celeste in quella che amo definire “figura geometrica del triangolo poetico”, i cui attori sono il poeta, il testo, il lettore.
Per questo vien da dire che i poeti, e tra questi, a buon diritto, Rosa Celeste, percepiscono anche i più semplici moti della realtà e ne sanno interpretare quasi tutti i segni, cogliendone i significati e proiettandoli in un tempo senza tempo, anche se neppure loro, a volte, sanno descrivere quanto all’improvviso e per avventura gli si rivela o, ad esempio, dire della forza soverchiante della natura, a causa proprio della penuria delle parole. E tuttavia sanno udire, come Rosa Celeste, i palpiti della natura e decriptare l’intensità del momento in cui l’anima si fonde con le cose della terra, scoprendone i codici, ma anche svoltare verso il dolore che insiste nel mondo e condividerlo.
Rosa Celeste lo sa e conosce il dolore, la cui esperienza e il cui ricordo, tuttavia, non la fanno precipitare nel vittimismo, in cui altri crollano e, isolandosi, si rinchiudono. A questo proposito belle e significative sono le pagine in “Bora e Scirocco” – dove si esprime la doppia natura dell’origine spazio-temporale della sua ispirazione poetica, essendo “Bora” vento proprio delle regioni del Nord-Est e “Scirocco” proprio del Sud-Est, spesso padrone dello Stretto di Messina- in cui il dolore si stempera in un canto a un tempo intenso e lieve, pieno anche di ironia e di commozione, alternando chiaroscuri e solarità di sentimenti e di espressioni. Rosa Celeste ha, infatti, conservato memoria del fuoco del dolore che il tempo e gli eventi accendono e alimentano proprio in chi è più sensibile, nei bambini e negli adolescenti, le età della memoria siciliana e messinese della poetessa, anche se a soffrire sono pure gli adulti, il cui dolore, a volte, pur non volendo essi, si riversa sui più piccoli. Così come nella sua opera sono cantati con levità anche i primi turbamenti dell’amore adolescenziale o l’innocenza immaginifica con cui vive i bombardamenti anglo-americani della seconda guerra mondiale o le tracce luminose dei proiettili, simili a stelle cadenti del male, della contraerea nei cieli che sormontano i Peloritani, che l’ammaliavano e ne confondevano fantasia e ragione, rendendola incerta se definirli “le nuove stelle della guerra” o i “nuovi fuochi d’artificio”.
E non solo.
Rosa Celeste canta anche la forza e lo spirito con cui ci si mette in cammino, si parte (Bora e Scirocco, p. 11) si va per il mondo, ci si pone in ascolto, si recupera e si protegge la memoria, sempre in attesa, come abbiamo potuto costatare, della parola nitida e secca e, al tempo stesso, fittamente densa di rimandi, pregna del senso di umanità, che si sparpaglia per il mondo, nonostante il dolore e il male che gli uomini producono e si infliggono. Testimoniandone il respiro lungo e potente, anche attraverso il sentimento totalizzante dell’amore come nella lirica “Medea 2000” ( “Giù la maschera”, p.20), in cui con forte accento passionale scrive “Le montagne il tuo corpo/il mare la tua forza/ il cielo la leggerezza soave del tuo animo/i fiumi il tuo essere e non essere”; o le minime cose , anche attraverso una lacrima di vino- e di vini Rosa Celeste se ne intende, visto che ad essi e alle loro connessioni con la terra che li produce e con la vita degli uomini e con l’amore dedica l’intera silloge “Vino, amore e poesia”(Lacrima di Merlot, p. 29). Vino, che, metafora del sangue della terra, è anche sinonimo di quel particolare sentimento dell’Isola, la Sicilia, dove tre soli splendono, da cui la vaga nostalgia forse di un paradiso non vissuto come avrebbe voluto per le note drammatiche vicende belliche, e di un amore non goduto, ma a cui stava per essere dolcemente iniziata attraverso la dolcezza di un fico, come si intuisce, nonostante il tragico che lo pervade, nel dolcissimo racconto “Melo, primo amore” (Bora e Scirocco, 56-57-58). Anche da qui il sentimento dell’Isola, in cui la natura sembra sprofondare nel mito e la vita degli uomini, ad esempio, nella superstizione de “La notte di San Giovanni” in cui sono esaltati il racconto della magia e la magia del racconto, come in “Sicilia” (Giù la maschera, p. 29) (Di questa lirica esistono due versioni, l’altra è in “Bora e Scirocco”, p. 35, e sarebbe interessante farne l’analisi comparativa). Tutto conservato nello scrigno della memoria al riparo delle ferite del tempo, come una cosa preziosa, simile ai miti o ai sogni dell’adolescenza, della luna grande di Sicilia, che per lei “oggi è un sogno di bambina”, del pescivendolo che ritma quasi grido lamentoso “russuliddaaa…beddacomu l’arcubalenu”. Così il lutto del ’43 che Rosa Celeste non capisce, le “misteriose mavarie della zia Amelia”, il “verde verde e grasso degli alberi di Sicilia”, la fragranza del profumo di gelsomino avvertito “come una cortina di protezione”, un nido pascoliano, quasi una difesa contro il male del mondo, e l’olezzo dei petali di rosa appassita che attraversavano gli ambienti del Collegio a Messina, “dove si sogna molto la notte” e dove “L’educanda continentale”, Rosa Celeste, incontra la bontà umana nello sguardo di una suora, il cui volto di cera “si scioglieva in lacrime”.
Rosa Celeste riesce a calarsi di volta in volta, dunque, nella realtà del momento senza rimanervi intrappolata, la trasforma anzi, ne fa simbolo e metafora di condizione esistenziale personale e no, dandocene misura con un linguaggio che afferra sempre il lettore, il quale scopre via via nella poetessa una fanciulla, un’adolescente, una donna in cui la nostalgia si fa commozione e presente, una creatura assetata di vita, lontana dalle “sagome nere” dei sommergibili, in cui l’assenza si palesò in maniera tragica con la morte del padre, e lontana anche dai giuochi di guerra; una donna assetata d’amore, che sente il suo corpo vendemmiato e spremuto dal suo uomo, e di relazioni umane che arricchiscono e per le quali “i ricordi non servono se non si conoscono i nomi”; anche se a volte pare dimenticarsene come in sintesi limpida e chiara, unendo le età della sua vita, scrive (“Bora e Scirocco“, p. 81) “Non chiedere da dove vengo/ Non ho un paese mio/ I luoghi che conosco/Tutti li assorbo in un istante/ Poi dimentico/ Forse sei solo tu/ Il luogo della mia vita” .
Anche se il luogo fisico e geografico, da cui ha tratto origine e nascita, la Sicilia, è un luogo senza tempo dove “era facile piangere alla luna”. E tuttavia un luogo impareggiabile, se è vero che l’ha segnata per la vita- nonostante sia cresciuta e si sia affermata professionalmente e artisticamente in terra lontana, tra Monfalcone, Gorizia e Udine, di cui canta e racconta in maniera mirabile gli ambienti umani e sociali, e le tradizioni, e le usanze, che spinge Fulvio Tomizza a dire che meritatamente Rosa Celeste fa parte di quella cultura e di quella tradizione artistica propria di Stuparich, Slataper, Saba, di quella, in una, che definiamo cultura mitteleuropea. Ambienti umani e sociali in cui si è integrata senza difficoltà grazie anche alle caratteristiche sue d’accoglienza che sono proprie della gente di Sicilia, che ha dato a Rosa Celeste una identità di terra ospitale e di mare aperto, la cui natura ha madre nel mito e i cui uomini sembrano sprofondare nelle tradizioni e negli arcani delle “mavarie”; dove, se ci si chiede che cosa sia la realtà e a che cosa è appesa, si può attraversare la percezione del naufragio e sentire a un tempo lo stupore della vita, scoprendo che la meraviglia generata dalla vita convive spudoratamente con l’angoscia; dove la luce e le oscurità polarizzano i contrasti; dove non è facile dare una direzione giusta al proprio destino, ma anche dove
“Ogni aura che qui muove
pulsa una cetra o empie una zampogna
e canta e passa………..Io ero giunto
dove giunge chi sogna”. (G. Pascoli, penultima strofa di “L’isola dei poeti”, “Odi”).
Anche se è proprio dal luogo dove si sogna che Rosa Celeste se ne parte senza mai lasciarlo, levigandosi “nella corrente del cielo”, conservando nel suo cuore e nella sua mente la memoria del sogno e della sua sicilianità e messinesità, che sparge come semi nella sua opera letteraria perché nulla se ne perda, dicendo delle cose la verità, che sembra essere lo scarto e la cifra della sua poesia e della narrazione chiara e mai confusa del suo mondo e del mondo che la vede partecipe interessata degli eventi e della vita!

24 maggio 2018
prof. Orazio Nastasi —

Il saluto di Rosa Celeste

https://www.youtube.com/watch?reload=9&v=H3x01zz3fIc





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