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Contro la politica eroica: le riflessioni di NICOLA BOZZO in una recensione del libro di Nina Lo Presti e Gino Sturniolo sull'esperienza Accorinti Sindaco

dalla copertina del libro di Nina Lo Presi e Gino Sturniolo.
ARTICOLO APPARSO SU#CARTEGGILETTERARI - MESSINA


Lo spunto iniziale è il libro degli ex consiglieri comunali Lo Presti e Sturniolo sulla loro esperienza a Messina e il dissenso nei confronti della sindacatura di Renato Accorinti dopo l’adesione iniziale

Un’analisi di NICOLA BOZZO


1 “Assolto per non aver commesso il fatto”, scritto da Nina Lo Presti e Gino Sturniolo (Armando Siciliano Editore 2017), è un libro che ritengo importante. Confesso che ha toccato evidentemente una mia sensibilità,riuscendo dunque a definire uno spazio comune tra me e gli autori, spazio che non appartiene né a loro, né  a me, ma che ci implica vicendevolmente. Ed è già un bel risultato.

2 Mi è piaciuto l’azzardo innanzitutto della scrittura. Essa per definizione implica una relazione con il tempo. Il tempo dello scrivere, quello del leggere. Di per sé dunque si cerca di stabilire un ordine del discorso che assume l’accadere nel tempo, come il proprio metodo di indagine.Credo si sovverta così quella dittatura dell’ attimo, dell’istante, che sembra ormai essere la forma unica di espressione del reale.
3. L’ idolatria dell’attimo, quindi, dietro cui peraltro si celano e si occultano sapienti strategie di potere comunicativo. L’accadere nel tempo sottrae i singoli fatti, isolatamente considerati, alla loro autosufficienza e alla loro insignificanza, che si consuma nello schema protettivo dell’istante, e organizza un discorso che si propone, in maniera dunque democraticamente apprezzabile, come contro-argomentabile solo che si assuma appunto il canone della complessità e del suo ineludibile correlato temporale.
4. Un secondo pregio del libro è una forte lealtà rispetto ai fatti. I temi indagati,si pensi ad esempio  allo spazio centrale assegnato alle politiche di bilancio ed alle relative scelte compiute, sono sottoposti ad una sorta di vivisezione, con una certosina e scrupolosa elencazione di fatti, atti, norme, deliberazioni, cifre e indirizzi giurisprudenziali, canoni interpretativi, etc, che testimonia la natura della sfida che si lancia: il campo del fattuale empiricamente verificabile come un terreno dotato di una certa forza di verità che, come tale, non è aggirabile retoricamente, ma si impone per “forza di cose”. Del resto, è ovvio che una critica frontale alla politica-retorica assuma l’antiretorica come propria cifra privilegiata.
5. Venendo al tema che più mi intriga, questo libro è un contributo critico non solo di un esperienza particolare, ma delle forme che in modo più generale e aggressivo assume la politica di questi tempi, quella che gli autori definiscono l’era dei sindaci-icona.
6. Cercherò brevemente di tratteggiare alcuni aspetti “identificativi” di questo nuovo paradigma del potere (perché di potere si tratta).
7. Lo sfondo è quello che possiamo definire del politico-eroe.
8. Può intendersi in questo modo innanzitutto un certo modo di strutturare il campo politico.
9. La contesa è assolutamente mitica ed eccezionale, e di conseguenza, come vedremo, etica e militare. Si muove da uno stato di necessità: la comunità è in pericolo. Ecco che dal pericolo estremo, dallo stato di necessità, emerge la figura del salvatore-eroe, che non incarna una parzialità (nei termini di organizzazione spaziale dello scontro politico cui siamo abituati, destra, centro, sinistra)ma incarna una totalità etica, ossia “il bene”. La legittimazione attraverso cui ci si auto-definisce è di ordine morale alla prima grandezza; la contesa è sul bene, sul bene comune.
10. É chiarissimo che qui c’è una deviazione plateale, e per me insopportabile, rispetto all’etica del limite connaturata al discorso democratico. Non ci sono “parti” equivalenti, ma le ragioni del bene costruiscono simmetricamente lo spazio di chi non si riconosce o si oppone. Ecco all’opera le forze del male (mafiosi,corrotti,o sostenitori dei mafiosi e dei corrotti, o al massimo utili idioti).
11. A catena si sgranano le conseguenze implicite nella premessa, cioè nella strutturazione del campo.
12. Ovviamente l’ avversario politico è il nemico, ma anche il sostenitore, non può destreggiarsi in sottigliezze e distinguo. No, egli deve assumere il peso della piena responsabilità, di miles, di soldato. Ogni cautela è una diserzione. Ecco qui come affiora il tratto ovviamente implicito al paradigma, cioè la natura totale del potere, nel senso che non permette spaziature, distanze, articolazioni, singolarità, ma l’adesione apologetica o il rifiuto empio e colpevole. Qui è percepibile anche un ulteriore profilo di questo paradigma post-democratico: la relazione capo-popolo è ovviamente plebiscitaria e acclamante. E’ la natura del valore esibito (il bene comune) che implica una sorta di corale identificazione nel condottiero: l’altezza “gerarchica” del valore implicato e la sua universalità rifiutano l’articolazione delle posizioni, il grigiore procedurale di una democrazia “formalistica”. Addirittura, come si sente dire dagli zelanti plaudenti che talvolta intingono nella idolatria più bieca la propria penna(o tastiera), il distinguo è antropologico.
13. Appunto, chiarissimo, il discrimine è sulla “qualità” umana. Del resto, si sa da sempre che il populista e il demagogo considerano il popolo come un’unità, come un tutto organico di cui loro sono l’espressione. Se ci fosse pluralismo, cadrebbe la premessa logica del capo-demagogo, l’essere lui il destino di tutta intera una comunità.
14. Per quanto detto, dunque, dovrebbe risultare chiaro che si disputa sulla verità: il politico-eroe è titolare , poi vedremo meglio attraverso quale processo, di un discorso in sé veritiero, pertanto  si autocostituisce come forza trascendente metafisica: la verità è il fondamento di ogni trascendenza. Nella prima parte del libro “Il coraggio della verità”, Foucault, indagando sulla pratica della parresia nella città greca, ossia sul pari diritto di ogni cittadino di prendere la parola e dire il vero, osserva: “All’interno di una città e di una struttura politica il vero può essere detto solo a partire dalla marcatura, dal mantenimento e dalla istituzionalizzazione di una certa scansione essenziale tra i buoni e i cattivi. La verità potrà essere pronunciata solo nella misura in cui questa scansione etica essenziale tra buoni e cattivi avrà effettivamente preso forma: avrà trovato il proprio luogo e definito la propria maniera di apparire all’interno del campo politico. In altre parole, la città ha bisogno della verità per poter esistere ed essere salvata. Ma la verità non può essere enunciata all’interno di un campo politico definito dalla natura indifferenziata dei soggetti parlanti. La verità può essere enunciata solo all’interno di un campo politico caratterizzato e organizzato attorno a una scansione: la scansione tra i più numerosi e i meno numerosi, che è anche la scansione etica tra coloro che sono cattivi e coloro che sono buoni, tra i peggiori e i migliori. È per questo che il dire-il-vero non può trovare la sua collocazione nel gioco democratico, dato che la democrazia non può riconoscere né lasciare spazio alla partizione etica a partire dalla quale – e soltanto a partire dalla quale – il dire-il-vero è possibile”. Appunto, la democrazia, avendo iscritto nel suo codice la pari dignità di tutti, non può attribuire un monopolio della verità come bene, questo non vuol dire che essa è scettica, la verità è l’esito di un confronto inesausto tra liberi ed eguali, quella democrazia del discorso così compiutamente sviluppata da Jurgen Habermas.
15. Si è detto con molta acutezza che la democrazia sarà “quando saremo tutti colpevoli”. L’innocenza originaria appartiene al campo del non democratico. Ed è stato un grande uomo di chiesa, il cardinale Martini, ad affermare in un suo scritto che il credente che si impegna nella sfera pubblica, e che esercita i suoi diritti di cittadinanza, deve ammettere di mettere Dio in minoranza: un’espressione di grande verità in forma paradossale. Se io scendo in campo con Dio a fianco, non posso che avere ragione, accettare la messa in minoranza di Dio è il rispetto dell’ethos democratico.
16. Altro tratto è la natura del potere come potere comunicativo.
17. I fatti (quelli che il libro di Lo Presti e Sturniolo si ostina a evocare) sono in larga parte soppressi. La prestazione dell’eroe politico non può stare nella prosaicità grigia del governare. É necessaria dunque una macchina comunicativa come movimento di trasfigurazione del reale.Vediamo come funziona.
18. Il politico-eroe (anche pastore come scriveva Foucault) deve a ogni istante rinnovare il patto (ineguale) che lo lega alla sua comunità. Ma deve farlo riproducendo artificialmente e incessantemente il pathos della sua elezione mitica, deve senza posa vivere ed essere vissuto nella sua pienezza morale. Il linguaggio, irrinunciabile per questo rito, non può essere evidentemente il discorso ragionato, ma quello per immagini. Anche la parola è una parola-immagine che veicola non un significato ma un modo di essere, i tratti esteriori del buono e del giusto di quest’ uomo-impresa.
19. Come tutte in tutte le comunicazioni per immagini, bisogna riprodurre certe pose, forme, particolarmente suggestive, che arrivano a costruire una sorta di repertorio teatrale. Insomma vorrei indicare il transitare dalla comunicazione-rappresentazione, dove permane una certa relazione tra fatti e loro veicolazione attraverso varie forme espressive, alla comunicazione -realtà dove l’unico obiettivo è il successo della comunicazione stessa, a prescindere da qualunque relazione con la realtà. E’ stato scritto: “Immagine è la parola chiave di tutte le analisi consacrate alla menzogna politica nel nostro tempo. Essa diviene la “cosa stessa” giunta nella percezione, prende il posto della cosa stessa, la quale, supponendo che non sia mai esistita come tale, sparisce per sempre senza che nessuno la richiami (J. Derrida, ”Storia della menzogna”). Ovviamente in questa “meccanica” affiorano i tratti già accennati, della politica-totale, cioè l’estensione a tutti i territori dell’esperienza dell’impronta del politico-eroe. Così la vita privata del capo mediatico è naturalmente esibita, come prova, come traccia, testimonianza delle virtù, anzi la vita privata è spesso più capace di veicolare messaggi appunto vuoti, messaggi puri. Il corpo diviene così un medium allegorico, secondo i contesti in cui deve essere “percepito”.
20. Quest’allegoria a getto continuo non può non confrontarsi con il momento topico di ogni allegoria della città, cioè quella della fondazione. Si tratta di un archetipo centrale. Ovviamente molto rapidamente può dirsi che non manca nell’iconografia di uno dei sindaci-eroi un’operazione di ricostruzione storiografica, per cui sono gli ossessivamente menzionati (piatto forte dell’allestimento scenico) “40 anni di lotta” a contenere un’iperbole della fondazione. È un archetipo assunto quasi letteralmente (giochi dell’inconscio collettivo?).
21. Nell’Iliade, la città è figlia della guerra e della sua vittoria: grazie al momento del polemos, appunto la guerra, si ha la polis. Anzi la polis è paradossalmente figlia della polemos, ma deve a sua volta trascenderla perché la polis è vivere ordinato, senza appunto la lacerazione della guerra, pur fondativa. Nel nostro caso la ri-fondazione della polis è figlia testualmente dei 40 anni di lotta, del pathos guerriero, dello scontro che, provvidenzialmente, diviene il segno dell’istituzione di una comunità spiritualmente “nuova”. La singolarità sta nel fatto che i nemici, quelli sconfitti nei 40 anni, non sono esiliati per sempre ma vivono, continuano a essere in latenza, o addirittura a manifestarsi nelle forme più varie (dicevamo ogni oppositore è un nemico o presunto tale). Dunque la polis è cinta dal rischio permanente dell’insorgenza del nemico. Da qui lo stato di allerta permanente, in cui polemos e polis convivono, invece di essere l’una successiva agli altri.
22. Su questa radice si staglia anche la rappresentazione vittimistica, sorella gemella dell’eroismo politico. Bisogna come un sol corpo stringersi all’eroe-politico perché in forma più o meno spettrale incombono i “poteri forti”, i clan mafiosi, i nemici mai definitivamente scomparsi.
23. I poteri forti qui non sono lettura puntuale, precisa e argomentata delle relazioni di potere-comando (politico, economico, criminale), ma entità tanto onnivore quanto indefinite. Verrebbe da dire poteri fatti di niente, come amava dire Flaubert della letteratura che amava, quella appunto fatta di niente.
24. Bordieu, ormai parecchi anni fa, aveva osservato che la comunicazione televisiva nega, in sé, per la sua rapidità, la possibilità del pensiero che, come detto, esige il tempo. Allora, osserva il filosofo francese, in quei tratti così rapidi si può comunicare soltanto attraverso “luoghi comuni”, cioè scambiandosi ovvietà che possono appunto tollerare la restrizione del tempo, visto che come ovvietà preesistono alla comunicazione e la rendono possibile Quale più banale luogo comune della mitologia dell’eroe, del cavaliere senza macchia, e quale estrema facilità di “lavorare” su questo codice, esibendo le immagini che lo ri-testimoniano all’infinito. Anzi, collocando il conflitto in un ambito caricaturale, la società si autoassolve, consegnando a soggetti circoscritti e talvolta altrettanto immaginari l’“intero” peso del male. Naturalmente poi c’è l’ abilità del palinsesto che usa in certo contesti e in specifiche occasioni l’ormai acquisito modulo comunicativo del politico-eroe, o dello scrittore-eroe: ecco che si assiste a una paradossale commistione di influenza, nel senso che il palinsesto usa come “merce comunicativa” il politico e lui crede di usarlo per estendere il suo consenso-comunicazione. Insomma il primato della volontà pura del capo degrada lentamente fino a divenire cliché del palinsesto. Vengono in mente le parole di Pirandello sulla comune appartenenza del tragico e del comico. La donna ormai sfiorita che invaghita del giovane s’imbelletta e si trucca smodatamente suggerisce al primo sguardo il senso del comico e del grottesco ma, dopo, quello del tragico, il tragico di questa impari contesa con l’implacabile trascorrere del tempo. Ecco: il politico-eroe rischia di essere un polo del tragico nello schema pirandelliano. La perenne luce deve avvolgere l’eroe-politico, la sua continua fruizione, il suo essere accesso permanente, il furore di questo eterno giorno senza ombre. Lì l’eroe-politico annulla il polo del notturno, come i  grandi centri commerciali, e in genere  i negozi, in cui la merce è sempre viva e presente, illuminata e mai sottratta  al suo pubblico.
25. Il sindaco-eroe, e questo è un tratto assai presente nell’esperienza messinese, spesso delega i termini specifici del governo locale a propri fiduciari. O perché totalmente assorbito sul versante enfatico-immaginario, o (ed è il caso di Messina) perché privo di competenze che gli permettano una presenza consapevole nei processi decisionali. Ecco qui un altro paradosso.
26. La singolarità narcisistica, eletta direttamente dalla comunità avvinta dal male, diventa pura assenza o pura parvenza. Si è creata una burocrazia fiduciaria, che detiene le leve dell’agire politico-amministrativo con una gravissima lesione del principio democratico: si è eletto chi decide poco e chi decide non ha alcuna legittimazione democratica. Il sindaco-eroe non assicura queste esigenti condizioni di un’esperienza autenticamente democratica. Inoltre, questa burocrazia privata è spesso composta da quei cascami di una certa borghesia professionale cittadina che, con piglio trasformistico e con furbo camaleontismo, ha sempre attraversato con disinvolta leggerezza le molteplici espressioni del potere politico.
27. É del tutto chiaro che, dopo la fine di una certa democrazia dei partiti e di un certo orizzonte della rappresentanza, gli interessi trovano altre forme di aggregazione, di auto-promozione e nuovi canali di espressione. Solo che prima, attraverso le dinamiche dei partiti e della rappresentanza, certi processi erano in qualche modo leggibili e interpretabili dai cittadini. Adesso siamo nel regno di una totale opacità, dove gli orditi, gli intrecci, gli scambi godono di una sorta di cono d’ ombra che li rende leggibili solo forse ad alcuni addetti ai lavori, ma non certo all’intera comunità. Ecco come la luminosità permanente ha il suo correlato buio,la sua notte fatale.
28. Infine, la politica-eroica mi appare profondamente solidale con alcuni topos della contemporaneità intesi come luoghi ideologici di un pensiero del conformismo. L’ individualismo sfrenato è la base “cognitiva” dell’eroismo politico. La lotta caricaturale tra il bene e il suo opposto è figlia di una autorappresentazione della società povera e intontita. Non emergono figure o momenti di un conflitto di valori e visioni, ma il piatto unanimismo senza radici né futuro. Come sosteneva Weber, il potere carismatico dura quanto il carisma, descrivendo la combinazione di una certa potenza ma anche di una ineliminabile fragilità.
Nicola Bozzo
“Le parole senza pensiero non arrivano al cielo” (Amleto)
“A mio parere, non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che vedono. Ciechi che, pur vedendo, non vedono” (J. Saramago, “Cecità”).
La copertina del libro è presa su Internet dal sito Scomunicando.
12 APRILE 2017

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